Il processo per l’omicidio di Saman e la piaga dei matrimoni forzati

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È entrato nel vivo il processo per l’omicidio di Saman Abbas, la 18enne di origini pakistane è stata uccisa a Novellara nella notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021 per essersi opposta al matrimonio forzato con un cugino nel suo Paese natale. Tra gli imputati, oltre al padre, i due cugini e lo zio, c’è anche la madre, l’unica a essere ancora latitante. Il clamore mediatico suscitato dal caso Saman non deve però far dimenticare le centinaia di ragazze di origine straniera fuggite da nozze combinate e forzate che vivono in Italia. Non esiste una stima accurata del fenomeno, ma secondo l’ultimo report di Action Aid nel nostro Paese ogni anno sono a rischio 2 mila minorenni, in maggioranza originarie di Bangladesh, Mali, Somalia, Nigeria, India, Egitto e Pakistan. Mentre da quando il matrimonio forzato è stato inserito come reato all’interno del Codice Rosso nel 2019, si sono registrati 35 reati di costrizione o induzione al matrimonio (nel periodo che va da agosto 2019 – dicembre 2021).

Il processo per l'omicidio di Saman e la piaga dei matrimoni forzati
Saman Abbas (Ansa).

Quando la comunità di appartenenza diventa una comunità di controllo

Tiziana Dal Prà ha fondato l’associazione interculturale Trama di terre e da anni è in prima linea per contrastare i matrimoni forzati in Italia. Secondo Dal Prà non c’è dubbio che la causa principale sia l’esclusione delle donne straniere dal circuito di tutela istituzionale. «Parlo con tante ragazze tutti i giorni, ma quello dei matrimoni forzati è un tema nuovo, anche nel mondo dell’antiviolenza», dice a Lettera43. Le ragazze straniere, anche quando dispongono di strumenti culturali, sono schiacciate dalle famiglie, la comunità di appartenenza diventa una comunità di controllo. «Tante giovani tramite il ricongiungimento familiare vengono portate qui in Italia, in una condizione di povertà educativa ed economica di cui le istituzioni non si occupano davvero», denuncia l’esperta. «Una volta in Italia ritrovano l’isolamento a cui erano obbligate nel Paese di origine in contesti svantaggiati e marginalizzati.

Dispersione scolastica e difficoltà di inserimento restano i problemi più gravi

Oltre al patriarcato imperante, pesa anche un contesto esterno che non vuole vedere il fenomeno. Ragazzine e donne finiscono così in trappola. E nulla o poco si fa per rompere queste catene. La scuola, per esempio, potrebbe essere il primo luogo di liberazione, ma vi si investe ancora troppo poco. Basta ricordare che la spesa pubblica destinata in Italia all’istruzione è appena del 4,1 per cento, a fronte di una media europea del 5. Nemmeno l‘obbligo di frequenza è rispettato. Dal recente report pubblicato da Save the Children Il mondo in una classe emerge che «solo il 77,9 per cento dei bambini con cittadinanza non italiana è iscritto e frequenta la scuola dell’infanzia (percentuale che sale all’83,1 per cento per i nati in Italia) contro il 95,1 per cento degli italiani. Tra gli studenti con background migratorio si registrano inoltre maggiori ritardi scolastici, casi di dispersione e abbandono scolastico. Mentre gli studenti di origine italiana in ritardo nell’anno scolastico 2021/22 rappresentavano l’8,1 per cento, quelli con cittadinanza non italiana erano il 25,4». Non solo: il 17,9 per cento degli studenti stranieri senza cittadinanza italiana ha dichiarato di non sentirsi mai o quasi mai parte della scuola. Con queste percentuali è facile immaginare come molte ragazze disertino le lezioni, diventando per le istituzioni dei fantasmi.

Il processo per l'omicidio di Saman e la piaga dei matrimoni forzati
Solo il 77,9 per cento dei bambini con cittadinanza non italiana è iscritto e frequenta la scuola dell’infanzia contro il 95,1 per cento degli italiani (Getty Images).

La mancanza di assistenti sociali

I servizi sociali preposti al controllo dell’obbligo scolastico non hanno sufficienti risorse, numeriche ed economiche, per occuparsi di tutte le fragilità. Dopo una diminuzione consistente, causata anche dalla crisi economica del 2008, i governi hanno ricominciato a investire nel settore dell’assistenza sociale, con il Fondo Nazionale Politiche Sociali e il Fondo Povertà. Secondo i Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali (LEPS, che l’Italia non ha ancora raggiunto) si dovrebbe assicurare un assistente sociale ogni 4 mila abitanti; a causa della competenza regionale in questa materia, i dati sono frammentati, ma fino a pochi anni fa era comune, anche nelle regioni del Nord, avere un assistente in servizio per 30 mila abitanti. «Non è controllo, ma è un tema di diritti. Perché noi abbiamo combattuto? Se la famiglia è isolata, il problema diventa enorme. Esattamente come nel caso di Saman», fa notare Dal Prà.

Perché la piaga dei matrimoni forzati è ancora sottostimata

Quello dei matrimoni forzati è poi un aspetto della violenza di genere molto complesso. I centri antiviolenza, che sono in grado di intercettare il rischio, sono penalizzati dalla scarsità di risorse. Secondo D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza) gli investimenti nel settore del contrasto alla violenza maschile contro le donne sono ancora insufficienti, nonostante l’Italia si sia dotata di un Piano nazionale antiviolenza da finanziare annualmente con 15 milioni di euro, oltre ai 13,8 milioni destinati al reddito di libertà nazionale per garantire alle donne inserite in percorsi di fuoriuscita dalla violenza 400 euro mensili per un anno. Ma per le forme di violenza di genere meno note, come i matrimoni precoci e forzati, la situazione risulta ancora più complessa. Sono menzionati nel Piano antiviolenza e sono puniti da norme specifiche (il Codice Rosso), ma sono pressoché inesistenti informazioni sui fondi erogati e le attività realizzate. La legge di bilancio 2021-2023 ha destinato 3.074.103 milioni di euro al dipartimento per le Pari opportunità, ma a oggi, non sono disponibili dati pubblici riguardanti la loro destinazione. Spesso poi ci si affida al terzo settore, al volontariato, e questo indebolisce ulteriormente la rete di tutela. Le vittime dei matrimoni forzati difficilmente chiedono aiuto perché sono escluse dai circuiti di tutela previsti nel nostro Paese, motivo per cui si stima che i numeri del fenomeno siano sottostimati. Tiziana Dal Prà, infatti, insiste sulla necessità di «nuovi contesti di supporto alla povertà, un contatto diretto per garantire i diritti fondamentali»: maggiori fondi contro la dispersione scolastica, progetti sulle questioni di genere nelle scuole, educazione all’affettività, attività extrascolastiche gratuite per bambine e bambini. I numeri delle ragazze e bambine a rischio sono cresciuti in questi ultimi anni e una delle cause è da ricercarsi anche nell’esclusione delle madri dal mondo del lavoro; secondo un’indagine dell’Istat, le donne straniere sono infatti più esposte alla disoccupazione delle italiane e, nel caso della comunità pakistana il tasso di inattività delle donne tocca il 90 per cento.

Dal recente report pubblicato da Save the children Il mondo in una classe emerge che solo il 77,9 per cento dei bambini con cittadinanza non italiana è iscritto e frequenta la scuola dell’infanzia (percentuale che sale all’83,1 per cento per i nati in Italia) contro il 95,1 per cento degli italiani.
Tiziana Dal Prà (dal sito di Trama di terre).

Il senso di lacerazione e senso di colpa di chi riesce a fuggire

Il sistema attualmente in vigore prevede che le minori che denunciano il rischio di un matrimonio combinato vengano collocate in case protette, per cercare di ridurre al minimo il contatto con la famiglia di origine. Ancora una volta però la soluzione diventa l’esclusione. Queste donne, come molte straniere, vivono in una dimensione di accerchiamento e negazione della loro vita, del diritto di vivere un’esistenza felice. Il disinteresse e le poche risorse sono confermate dalla mancanza di dati statistici e studi ufficiali sui matrimoni precoci. Anche quelle che riescono a fuggire da contesti violenti, dice Dal Prà, provano comunque sensi di colpa verso la famiglia, una lacerazione profondissima. Ci sono ragazze che arrivano a chiedere aiuto perché non sanno con chi parlare del dolore che sentono. «Alcune si sono emancipate scappando da un matrimonio forzato, hanno ottenuto una borsa di studio, ma continuano a dare soldi alle famiglie di origine. Sono le istituzioni a dover individuare persone competenti che siano in grado di gestire queste situazioni».

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