Racconto viaggio in Cuba

  • Autore dell'articolo:
  • Categoria dell'articolo:News
  • Commenti dell'articolo:0 commenti


E finalmente, insieme alle agognate ferie, arrivò il 22 luglio, giorno della partenza per Cuba con un pacchetto mix tour+soggiorno balneare a cura dei Viaggi del Ventaglio. A tale proposito facciamo notare che lo stesso identico pacchetto con partenza in date immediatamente successive (e quindi in agosto) ci sarebbe costato la bellezza di un milione abbondante in più a testa, e scusate se è poco, quindi occhio a quei perfidi e criptici prezzari ben confusi nei depliants! Partiamo in auto da Firenze e giungiamo appena in tempo (maledetta “Appenninica”, ma quando si decideranno a rifarla?) al parcheggio custodito presso Malpensa (compreso nel pacchetto!) dove ci sequestrano rapidissimamente l’auto, ci caricano su una piccola navetta e ci portano in aerostazione. Il vettore è Air Europe, compagnia italiana di charter che, smentendo il luogo comune che charter uguale economico uguale scadente, ci imbarca su un Boeing 767 dall’aspetto, sia esterno che interno, decisamente rassicurante e dotato di un equipaggio cortese ed efficiente. Durante le 9 ore e passa di volo da Malpensa a Ciego de Avila veniamo dignitosamente nutriti e ottimamente intrattenuti dalla proiezione di tre films molto recenti e di ottima qualità anche se ad Ely, data la posizione non ottimale, un po’ di torcicollo non glielo leva nessuno. Tutto bene, quindi, tranne il perfido caffè, decisamente poco italiano! Poco prima dell’atterraggio due hostess percorrono velocemente i corridoi spruzzando nell’aria un misterioso disinfettante “per adempiere alle prescrizioni delle autorità sanitarie cubane”: che il regime fosse particolarmente attento ai problemi sanitari lo sapevamo, però…….. A Ciego de Avila, aeroporto piccolo e spartano , ci accoglie un caldo umido che rende ancor più penosa la lentissima fila del controllo in locali privi di aria condizionata dove scrupolosi funzionari verificano la “Tarjeta del turista” precedentemente compilata in volo e timbrano il passaporto. Per inciso dobbiamo ricordare la particolare situazione di Cuba che, a causa del blocco economico sancito dagli USA ed approvato da tutti gli stati americani tranne Canada e Messico, attraversa una grave crisi economica che non le permette di curare granché il comfort delle proprie strutture. Recuperati i bagagli, appena usciamo veniamo accolti da Pedro, che sarà la nostra fedele guida …indigena durante il tour, coadiuvato da Laura, l’accompagnatrice italiana. Ci dirigiamo verso Moron con un pullman comodo ma dotato di un perfido microfono, per cui Pedro, solerte, inizia ad illustrarci il suo Paese, ma noi, seduti anche un po’ in fondo, capiamo ben poco e cominciamo ad accusare la stanchezza della transvolata. (Avete mai notato che la stanchezza anche se l’accusate non si difende mai?) Una mezz’oretta dopo raggiungiamo l’Hotel Moron di Moron (che fantasia!) che pur essendo il migliore della città e si presenti ben pulito, tradisce la non più verde età e un crescente bisogno di maquillage non possibile ad oggi per la già menzionata crisi, la quale però non impedisce ai cubani di dotare ogni albergo o ristorante di un allegro ed instancabile complessino di almeno tre elementi. Come ogni italiano che si rispetti il primo pensiero è di telefonare a casa, e considerando che non c’è molto tempo da perdere, visto che in patria è notte fonda, acquistiamo una tarjeta telefonica che per la modica cifra di 10 $ americani ci consente ben 2 minuti di convenevoli. Dopo una gradevole cena ad un buffet, soddisfacente sia per la pulizia che per la varietà dei cibi con la solita eccezione del caffè, non ci pare il vero di andarcene a letto cullati dall’infernale baccano del pur irrinunciabile condizionatore russo in dotazione. Scombussolati dal fuso ci svegliamo ante lucem, cosa spiacevole che però ci permette di osservare il progressivo risveglio della città, scenario ben diverso da quello al quale noi europei siamo abituati: traffico motorizzato pressochè inesistente, sostituito dalle onnipresenti biciclette russe e cinesi e, specialmente qui in provincia, dai calessini multiformi in attesa dei primi clienti. Mentre restiamo particolarmente colpiti dalla cura e dall’abilità dei giardinieri cubani che, privi di qualsivoglia attrezzo motorizzato, riescono a sistemare perfettamente i prati roteando con maestria il fedele machete, la quiete viene spezzata da un potente chicchirichì proveniente dal monumento del gallo simbolo della città, che ogni mattina ed ogni sera alle sei scandisce i ritmi della giornata. Dopo una colazione all’altezza della cena ci mettiamo in marcia (o meglio in pullman) per scoprire l’isola: prima sbirciamo dai finestrini quanto più è possibile, poi, finalmente, facciamo la prima fermata a Sancti Spiritu: subito siamo immersi nella variopinta realtà fatta da camion riadattati come autobus…più o meno di linea, barroccini che vendono strani intrugli dall’odore invitante,case popolari di marchio russo (che tristezza!) e casette più isolate con il tetto in foglie di palma e il piccolo patio con la tradizionale sedia a dondolo, non importa quanto sgangherata, ma ci deve proprio essere. Ripartiamo e nel frattempo il nostro Pedro ci illustra le più salienti caratteristiche sia geografiche che economiche della regione che stiamo attraversando, così quasi senza accorgercene arriviamo alla tenuta dei Manara ­Iznaga dove si può visitare la casa di campagna di una famiglia latifondista, oggi trasformata in ristorante e salire sull’altissima torre che fu costruita per sorvegliare meglio il lavoro dei poveri schiavi: per un dollaro anche noi possiamo inerpicarci per le scale vertiginose ed ammirare un panorama senza schiavi, per fortuna, ma suggestivo. Prima di ripartire ci tocca anche il brivido di assistere alla spremitura in diretta della canna di zucchero con il sistema antico e soprattutto di poterne bere il succo: qui il Ministero della sanità (ovvero Giò) ha storto il naso, fosse solo per il triste aspetto del secchio di raccolta, ma l’occasione era abbastanza irripetibile e ci siamo fatti coraggio. Pensate poi che organizzazione: pagando 2 $ anziché 1 si poteva avere anche il supplemento di rum! Mentre aspettiamo gli altri per risalire in pullman, veniamo assaliti da donne e bambini che cercano di venderci qualcosa, ma soprattutto ci chiedono saponette, soldi, penne, caramelle e persino aspirine! È uno degli effetti dell’embargo statunitense, così dedichiamo anche a Clinton un grato pensiero. E via, di nuovo in pullman verso Trinidad, dove arriviamo dopo due nuove fermate: la prima ad un osservatorio che domina una verdissima valle di palme reali, protetta come merita in quanto dichiarata “patrimonio dell’umanità”: oltre al belvedere troviamo un piccolo bar dove un giovane cubano armato di chitarra canta “La Bamba” con una bella voce espressiva e dove apprendiamo da Pedro i primi rudimenti sui vari tipi di rum; la seconda fermata ci permette di assistere al lavoro degli artigiani ceramisti nel loro laboratorio-mostra, facciamo anche un pensierino all’ idea di comprare qualcosa, ma sia il peso degli oggetti, sia il fatto che non ci siano in realtà grandi tesori d’arte, ci dissuadono dal farlo. Finalmente, affamati come lupi e un po’ stanchi arriviamo in città, in plaza S.Ana all’omonimo ristorante dove, allietati da un bel complessino dal quale acquistiamo la prima musicassetta della serie, soddisfiamo uno dei bisogni primari. A questo punto mettiamo a fuoco il fatto di avere nella macchina un’ultima diapositiva da scattare e ci balena l’idea di chiedere all’autista la nostra valigia per prendere un paio di rullini, ma come ci avviciniamo al pullman veniamo circondati da bambini di tutte le età e aprire il bagaglio in mezzo alla strada non ci sembra indicato.Finiamo la pellicola nel primo luogo interessante dove entriamo: una fabbrica di sigari, dall’atmosfera cupa un po’ fuori dal tempo e dall’aria ovviamente impregnata di tabacco dove uomini, donne, ragazzini davanti al loro banco di lavoro arrotolano, pressano, tagliano gli habana in pieno rispetto della “626”! Appena “usciti a riveder le stelle” infiliamo nel negozio di sigari adiacente, dove troviamo confezioni di ogni prezzo e misura, spendiamo prodighi qualche dollarone e iniziamo a conoscere gli aspetti più storici ed estetici di Trinidad, le viuzze in acciottolato sulle quali si affacciano le casette dai toni pastello, il mercatino dei ricami che serpeggia per tutta la parte antica, i vivacissimi bar dove la musica fa sempre la parte del leone: prima la Casa della Trova, che infatti più che un bar è sempre stato un ritrovo per fare e comprare musica, poi la Canchanchara, che deve il nome ad un famoso cocktail (o era il contrario?) dove ascoltiamo un complesso molto in gamba e compriamo la seconda cassetta. Ma è in mezzo a queste due fermate musico-beverecce che scopriamo il gioiellino della città coloniale: il Museo Romantico, un palazzo di una ricca famiglia latifondista- come puntalmente ripeteva Pedro- dove sono stati radunati da tutta l’isola i mobili e gli arredi dei signorotti spagnoli. Questi non lesinavano né in fatto di comodità né di lusso ed importavano dall’Europa dal marmo di Carrara dei pavimenti fino alle pendole svizzere e alle porcellane di Sevres, Capodimonte o Limoges; il contrasto con l’umile vita condotta dagli schiavi non avrebbe potuto essere più stridente! Fatte le nostre uniche foto della città alla Canchanchara (dove finalmente siamo riusciti a reperire una pellicola) e nelle immediate vicinanze, il fido pullman ci ha portato al nostro nuovo hotel, ad Ancon ed essendo questo in riva al mare ed avendo tempo a disposizione prima di cena, siamo subito corsi in spiaggia per fare un bagno ristoratore. Abbiamo avuto così l’occasione di scoprire le stranezze metereologiche delle Antille… Scesi in spiaggia con il sole, siamo stati sorpresi da un violento scroscio d’acqua nel mentre ci spogliavamo: il tempo di correre sotto un ombrellone poco lontano e riflettere sul da farsi che tutto era già finito e potevamo entrare in acqua…senza bagnarci! Un’altra sorpresa, piacevole questa volta, è stato il calore incredibile dell’acqua, limpidissima e poco profonda. Finalmente si cena, sempre al buffet e con una buona scelta; non è finito: dopo veniamo invitati a recarci alla piscina per assistere ad uno spettacolo di varietà. Restiamo quel tanto per farci un’idea, poi a letto, visto che come prima giornata effettiva è stata tosta. La nuova giornata inizia di buon mattino con una visita all’orto botanico fuori Cenfuegos: veniamo allertati da Laura circa l’importanza di un uso massiccio d’Autan e scendiamo dal pullman pronti ad affrontare i vampiri della Transilvania… Passeggiando in mezzo ad una natura verde e rigogliosa apprendiamo (e subito dimentichiamo) il nome e le caratteristiche di molti alberi tropicali: un paio però ci sono rimasti impressi. Il primo è l’albero “che cammina”, dalle lunghe liane che toccando il suolo mettono radici, ampliando costantemente il diametro della pianta, lontana parente del Ficus; assistiamo ad un paio di tentativi di imitazione di Tarzan, con foto di rigore, poi proseguiamo verso la seconda pianta degna di essere ricordata: è l’Albero “del ferro”, il cui legno è così duro e pesante dall’essere l’unico al mondo che non galleggia (da lì l’usanza di farci i salvagente per le suocere, così ci assicura la guida del parco) Arriviamo presto alle serre, umidissime, dove le zanzare ci aspettano ancora più agguerrite e sembra che l’Autan sia il loro aperitivo preferito. Tra un pinzo e l’altro ammiriamo le piantine di serra, prima orchidee e simili, purtoppo non in fiore, poi in un’altra stanza tutti i tipi di cactus immaginabili, finalmente usciamo, lasciando le zanzare ben nutrite a fare la siesta. Ripartiamo per il molo di Cienfuegos, infatti prima di visitare il centro, dobbiamo vedere la Fortaleza de nuestra Senora de Jagua , costruita dagli spagnoli come protezione dai pirati. Una motonave ci porta a destinazione, prima però siamo intrattenuti dalla serenata del capitano e tra le tante canzoni che ormai abbiamo imparato a conoscere, si mette in luce per bellezza ma anche per frequenza di esecuzione “Hasta siempre Comandante”, detta più comunemente la canzone del Chè. Fino a che non entriamo dentro le mura della fortezza abbiamo sempre il nostro codazzo di ragazzini questuanti e dato fondo alle saponettine degli alberghi ed ai chewingum non abbiamo niente da offrire loro; dentro, però, riusciamo ad immergerci indisturbati nell’atmosfera cinquecentesca ed a visitare i vari ambienti ben conservati. Qui però i nostri pareri sono discordi: io (Ely-ndr-) trovo che sia bella ed interessante, ma Giò dice che invece è un po’ scarsina e per correttezza riporto anche il suo giudizio… Rientrati al porto e fatti pochi chilometri in pullman, andiamo a pranzo in un albergo ristorante dove anche i cubani si recano per festeggiare i matrimoni e gli ingressi in società: c’è in fatti una deliziosa ragazzina vestita in rosa e acconciata come una sposa che noi avevamo preso per tale, pur sorpresi dalla sua giovinezza, ma Pedro ci spiega che è una quindicenne debuttante. Mangiamo come è d’uopo a suon di musica, poi ci spostiamo di pochi metri verso il palazzo Valle, fatto costruire da un italiano in un misto di stili, moresco, veneziano ed anche un po’ egiziano, data la presenza di sfingi; oggi è adibito a ristorante e sulla sua ampia terrazza panoramica c’è un bar all’aperto, dove sostiamo un po’ facendo foto e sorseggiando un insipido cocktail col rum. Ci rechiamo nel centro di Cienfuegos ammirando edifici maestosi appartenuti ai soliti ricchi latifondisti, la piazza alberata con il gazebo in muratura per l’orchestra che ci fa pensare alle città messicane e mentre passiamo sotto un porticato per raggiungere un negozio di artigianato e antiquariato ci accorgiamo che il nostro gruppo è osservato da alcuni ritrattisti “a sorpresa” che scelgono le persone più caratteristiche, ne schizzano la caricatura a loro insaputa e poi cercano di vendergliela per pochi dollari: con un paio di ragazzi funziona, anche perché i lavori risultano somiglianti e spiritosi, altri più approssimativi restano invenduti. Il villaggio “Las Canejes” dove dobbiamo cenare e pernottare, a pochi chilometri da Santa Clara, ci entusiasma fin dal primo momento: reception, ristorante e camere sono grandi capanne immerse in un parco dall’aspetto di una jungla : un anziano facchino porta le valige nostre e di altre tre coppie al grande bungalow rotondo diviso in sei appartamentini. Ma anziché limitarsi a darci le chiavi e scaricare i bagagli fa da cicerone ad ogni coppia iniziando ad elencare tutto quello che contiene la camera e mostrare perfino l’uso delle abajour, dei rubinetti, dello sciacquone… se non si sbrigava ad andar via non ce la avremmo fatta a trattenere le risate. Gli diamo 1 $ di mancia, visto che doveva mirare proprio a quello (l’unica alternativa è che ci abbia preso tutti per scemi ma preferiamo escluderla!) La cena non è eccezionale, soprattutto troviamo un po’ caotica la sala da pranzo, con vassoi disseminati di qua e di là in posti precari e troppa gente affamata tutta insieme. Naturalmente c’è un’orchestra che suona: è un quartetto molto simpatico che festeggia proprio oggi 31 anni di attività e naturalmente cerca anche di promuovere la vendita della loro cassetta. Ad un certo punto vengono a suonare proprio al nostro tavolo, dove stiamo cenando con due coppie di signori vicentini, la canzone del Chè: proprio oggi in pullman uno di loro, un signore molto allegro e gioviale, aveva lamentato il martellamento canoro a cui eravamo sottoposti… I colpevoli “mittenti” del tavolo accanto gli abbiamo visti piegati in due dal ridere. La serata termina con un numero musicale, nel quale tentano di coinvolgerci, e con una sfilata di moda da spiaggia: sfilano un indossatore e sei ragazze che alternano bikini e parei. Gli uomini del gruppo sembrano molto interessati ai bikini, chissà perché. Si può dire che a Santa Clara Chè Guevara aleggi ancora nell’aria e tutto parli di lui e, a prescindere delle idee personali, non si può non restare colpiti da tanto idealismo ed abnegazione disinteressata a una causa. La prima visita mattutina sarebbe dedicata proprio al Memoriale che comprende un gigantesco monumento, la tomba ed il museo dedicati a lui, ma appena arriviamo scopriamo che c’è in visita ufficiale il Presidente del Congo, per cui per motivi di sicurezza non possiamo nemmeno scendere dal pullman: a niente valgono le nostre appassionate dichiarazioni di simpatia e ammirazione per il Premier africano, proprio non vogliono farci scendere! Proseguiamo così per il Monumento del tren blindado, quello fatto deragliare con una ruspa dal Chè e dai suoi uomini perché stava portando i rinforzi all’odiato Batista. Poiché oggi è proprio l’anniversario dell’indipendenza (25 luglio-ndr) nella piazza principale della città troviamo una folla festante e rumorosa, caos di biciclette, bambini e scoppiettanti mortaretti… questi ultimi lanciati in aria con un lungo bastone e lasciati tranquillamente ricadere in mezzo alla gente ancora accesi: dobbiamo fare un vero slalom per ripararci sotto i portici senza beccarne uno in capo. E qui arrivano le dolenti note dei viaggi organizzati: quando te non hai niente, ma proprio niente da comprare, ma ti vengono imposte tre ore in piedi sotto al sole perché qualcuno deve comprare souvenir (che oltretutto non sono affatto diversi da quelli venduti in altre decine di negozi già visitati) ed oltre tutto il negozino in questione è troppo piccolo e caldo perché anche chi non deve fare acquisti possa ciondolare per ingannare il tempo! Finalmente, quando tutte le magliette, le penne, i cappellini con la faccia di Ernesto sono stati venduti e il negoziante è pronto a ritirarsi per contare i dollaroni, riusciamo a ripartire per la piazza del Memoriale e fare un altro tentativo per visitarlo. Siamo decisamente più fortunati e riusciamo nell’intento: per entrare nel luogo dove Guevara è sepolto con i suoi più devoti compagni occorre un abbigliamento consono, è vietato parlare e scattare foto. Un lume resta sempre acceso davanti alla tomba, la stanza è in penombra. L’adiacente museo accoglie molti cimeli del Comandante: libri, oggetti quotidiani, divise, armi e foto molto espressive, comprese quelle più conosciute anche in Italia. Infine torniamo ai piedi del monumento e Pedro ci traduce il testo della lettera trascritta su una lapide gigantesca e dedicata a Castro, ai cubani ed ai familiari del Chè: è molto commovente e rispecchia la generosità d’animo del suo autore. Dopo aver pranzato dato il cambiamento di programma al “Canejes” e un breve riposino in giardino risaliamo in pullman. Raggiungiamo ora il piccolo centro di Remedios; questa volta la visita principale è ad una piccola chiesa cattolica dedicata a S.Giovanni Battista: entriamo dal retro passando dalle stanze parrocchiali e non riusciamo nemmeno a renderci conto di come sia la facciata e l’esterno della chiesa, in compenso possiamo vedere che l’interno è molto simile al barocco spagnolo, le statue della Madonna, di Cristo e dei Santi sono ricoperti da pesanti abiti di velluto e dappertutto ci sono stucchi dorati, puttini e ghirigori. Prima di uscire ci viene offerta per ricordo una copia dell’opuscolo preparato in occasione della visita del Papa dello scorso gennaio; inoltre avevamo notato che sugli stipiti di molte porte avevano lasciato il poster con il quale gli davano il benvenuto: per i cattolici dell’isola questo incontro ha rivestito molta importanza e ha garantito loro maggiore libertà di culto. Il programma prevede adesso la visita del laghetto di Hanabanilla: ci dovrebbero essere i fenicotteri rosa, ma in realtà riusciamo a vederne uno solo, ci sono invece anatre con i piccoli e misteriosi uccelloni neri che non siamo riusciti né a identificare né a fotografare. Detto fra noi non è che il posto sia poi in gran che, sembra che avessero un buco da riempire in qualche modo… Torniamo infine a Moron, dove prima di cena facciamo una girata con uno di quei calessi che ci avevano colpito il primo giorno: prima di tutto, visto che sono quasi le sei, ci fermiamo alla statua del gallo per sentirlo cantare, poi proseguiamo per questa cittadina di provincia un po’ decadente ma che serba qua e là le tracce di un passato più agiato ed è comunque caratteristica. Alloggiamo nello stesso albergo ma in una camera diversa dove il condizionatore è più silenzioso ma che peccato! Ceniamo sempre al buffet, chissà come mai stasera hanno avuto l’idea di fare una cena a lume di candela ed è così buio che non solo non si vede bene quello che mettiamo nel piatto, ma essendoci toccato un tavolino nella saletta adiacente a quella principale, dobbiamo salire dei gradini e c’è una certa suspance ogni volta che passiamo col piatto in mano… Dopo cena sappiamo che deve esserci una grande soireè alla piscina per festeggiare un anniversario dell’hotel, così ci avviamo diligentemente per tempo per prendere un buon posto. Oltre all’attesa in piedi per dare il tempo al personale di disporre i tavoli, però, si prospetta un’attesa interminabile prima che gli artisti diano inizio allo show: mentre noi siamo pronti da un’ora e ci annoiamo da un pezzo, vediamo che loro sono ancora a tavola a mangiare beati. Dopo un po’ ci alziamo gettando la spugna. Come Laura ci aveva raccomandato ieri sera, stamani ci vestiamo molto sportivi per affrontare una passeggiata a cavallo nella campagna di Florencia: indosso un paio di pantaloni viola che hanno conosciuto tempi migliori e sono un po’ trepidante perché non ho mai cavalcato un cavallo, anche se ho cammellato un cammello (logica inoppugnabile, no?). Anche Giò è nelle mie condizioni ma ha più sangue freddo e se è preoccupato non lo dà a vedere. Il pullman ci porta in piena campagna, proprio dove ci attendono i cavalli che sono “telecomandati”, così assicurano sia Pedro che Laura: nonostante le loro rassicurazioni, però, qualcuno non si sente di fare questa esperienza e ci raggiungerà con un camion al luogo dove pranzeremo. Il momento fatidico è arrivato: tre cow boys ci prendono in consegna e dobbiamo rinunciare alla confortante sensazione di avere piedi per terra per salire a cavallo. Quando tutti siamo in sella possiamo finalmente partire: Giò mi fa quasi rabbia da come è tranquillo, pare John Wayne, io sono abbarbicata al pomello della sella e mi chiedo perché sono così masochista… intanto lui, il centauro, pretende che sorrida e scatta foto a tutto spiano. All’inizio il sentiero, lo stesso percorso da Camillo Cienfuegos per sfuggire a Batista, è sassoso, sdrucciolevole e pieno di buche, il cavallo ovviamente sa la strada per averla fatta centinaia di volte, ma io non sono sempre d’accordo su dove decide di passare! inoltre procediamo tutti in gruppo abbastanza appiccicati, per cui ci tamponiamo, ci superiamo speronandoci ed è tutto un chiedere “Scusa, non volevo”: è evidente che sono i cavalli a guidare noi e non viceversa; le briglie ci servono più che altro come freno d’emergenza, visto che le nostre “guide indiane” hanno tutto sotto controllo ed impartiscono ordini ai cavalli chiamandoli per nome: Palooooma!Mulaaaatto!Maripoooosa! Fortunatamente via via la strada si fa sempre più larga e pianeggiante, riusciamo a distanziarci un po’ dai nostri compagni e a godere il paesaggio, ora molto più bello: svettano altissime le palme reali, ovunque ci circonda una natura verde e rigogliosa, si sentono solo le nostre voci e il canto degli uccelli. Poi vediamo qualche capanna di campesinos e animali: buoi, tori, mucche e maiali, mentre più avanti incontriamo un tranquillo campeggio frequentato solo dai cubani. Durante l’unica sosta che facciamo le guide tagliano delle noci di cocco col machete e ce le offrono per pochi dollari. Noi invece, che abbiamo per tutto il tempo piacevolmente conversato con il più anziano dei cow boys , che fra l’altro era stato anche molto premuroso con me preoccupandosi per la mia instabilità sulla sella, riceviamo da lui un frutto selvatico ciascuno, da mangiare con la buccia! Come declinare l’offerta di un signore tanto gentile senza offenderlo? Così con le mani belle sudate che avevano toccato cavallo, staffe, briglie e non so cos’altro, prendiamo dalle sue altrettanto pulite i frutti proibiti dal ministero della sanità e li mandiamo giù, pregando Sant’Anticorpo (Giò soprattutto, che è già molto schizzinoso di suo) Dopo circa un’ora e mezzo di cavalcata arriviamo in riva ad un torrente dove ci stanno aspettando gli altri per fare un pic nic: quasi quasi, anche se ho le articolazioni dell’anca completamente intorpidite, mi dispiace scendere: in fondo ero riuscita a staccare le mani dal pomello e a puntare i piedi sulle staffe quando il cavallo prendeva il trotto! Ma torniamo al pic nic: l’organizzazione è perfetta, ci sono tavoloni e panche di legno, un paio di cuochi al barbecue, un chitarrista (Nooo ! Anche qui!) e addirittura un prestigiatore, che mentre mangiamo ci diverte con i suoi giochetti: non sarà proprio Silvan o Binarelli ma è bravino e si arrangia con povertà di mezzi. Il pranzo è una vera ‘comida cubana’ ed è così composto: banane fritte a fettine (non sono affatto dolci, sembra di mangiare le Chipster) e ciccioli di maiale, cubetti di mango e papaia sempre come antipasto, poi un piatto di congrì, il tipico riso con i fagioli neri, un pezzetto di zucca e yucca lesse, carne di maiale alla griglia. L’acqua, fortunatamente, è in bottigliette sigillate; a fine pasto ci preparano il caffè criollo, che a dispetto del rustico modo in cui viene filtrato, è proprio buono. Saliamo non sul nostro pullman, ma su un camion, che per lo standard cubano è di lusso, perché ha un telone per riparaci dal sole e seggiolini, per quanto duri siano. Dopo diversi chilometri e una lunga sosta per andare in un bagno di fortuna (ma noi teniamo duro) arriviamo in una piccola fattoria dove organizzano rodei per i turisti: è presente all’evento solo il nostro gruppo, che può prendere posto comodamente sulle gradinate e comincia quello che ci era stato descritto come un entusiasmante rodeo: in realtà vedere catturare i vitelli con il lazo e atterrarli con le zampine legate non entusiasma nessuno di noi; più divertente, anche se pericolosa, è la sfida di resistenza sulla groppa del toro fatta da diversi ragazzi del ranch. Con questo si conclude la prima parte della nostra vacanza, che prevede adesso un soggiorno balneare a Cayo Guillermo e, se possibile, un’escursione di un giorno all’Avana. Per arrivare al nostro Ventaclub dobbiamo passare un terrapieno artificiale, cioè un istmo di terra lungo diversi chilometri che collega la provincia di Moron con l’isolotto di Cayo Coco e poi, proseguendo, con Cayo Guillermo. A destra e a sinistra della strada il mare è molto basso, si sono formate delle lagune dove trovano abitualmente rifugio gli uccelli acquatici, specialmente i fenicotteri rosa che chiamano flamingos e sono un altro dei simboli di Cuba: siamo fortunati e riusciamo a vederne diversi, immobili sul pelo dell’acqua. Appena arriviamo salutiamo Pedro, che deve ripartire subito per incontrare un nuovo gruppo e insieme a Laura ci dirigiamo nella reception per farci assegnare le camere e veniamo muniti di un braccialetto di plastica azzurro che permette al personale di riconoscerci come clienti ed evitare che ci siano degli infiltrati. Finalmente, sbrigate le solite formalità, ci incamminiamo verso la nostra dimora, ma il criterio con il quale sono state numerate le villette è un po’ contorto e ci vuole un po’ a trovarla! fortunatamente non abbiamo le valige a rimorchio quindi possiamo anche permetterci di girare un po’ a vuoto. Con l’aiuto del facchino scopriamo dove si trova il nostro alloggio: è in una delle villette più grandi, al secondo piano, abbastanza lontano dalla reception e dagli altri spazi comuni. La camera ed il bagno sono molto spaziosi e riusciamo a trovare un posto per tutte le nostre carabattole, ci sono il frigo bar (mai usato), la tv via satellite (molto usata, Giò ha il viziaccio di accenderla appena entra in camera), un terrazzo. Per mangiare possiamo scegliere tra 4 ristoranti, che naturalmente proviamo tutti: quello centrale, al buffet, il grill vicino alla piscina per il pranzo, Pasta & Pizza e La Bodeguita solo per la cena. Il sistema “All inclusive” ci permette di avere gratuitamente ogni tipo di bevanda, anche alcolica, sia a self-service che ai bar ed è veramente comodo non dover girare sempre con il portafogli: basta il famoso braccialetto che fa un po’ pollo Arena ! Al desk delle escursioni ci ricordiamo che Cuba non è Cuba senza una capatina all’Avana, o meglio, La Habana e ci affrettiamo a prenotare. Partiamo la mattina presto, svegliandoci a un’ora antelucana, così da sfruttare bene la giornata e rientrare al Cayo prima del tramonto, infatti l’aeroporto locale non ha le luci d’atterraggio, quindi dopo una certa ora chiude! Ci imbarchiamo su un vecchio Yak 40 di fabbricazione russa dall’aspetto un po’ trasandato e passati i primi momenti di apprensione, dopo il decollo ci rilassiamo, rendendoci conto che tutto sommato sta su: oltretutto l’unico membro dell’equipaggio è premurosissimo e passa almeno tre volte in un’ora offrendoci caramelle, bibite e caffè. Appena sbarcati e trasbordati su un nuovo pullman iniziamo la nostra scoperta dell’Avana tenendo occhi e orecchie ben aperti per captare il più possibile nel poco tempo che abbiamo a disposizione. Lasciata la periferia della zona aeroportuale abbiamo subito l’idea della grande città che è stata teatro di diverse epoche storiche e politiche delle quali si mescolano le tracce: i grandi palazzi ormai bisognosi di restauro della borghesia nord americana e i monumenti inneggianti all’attuale regime con i suoi slogan e i suoi eroi (questo particolarmente nella piazza della Rivolution, dove lo sguardo abbraccia la statua di josè Martì, il ritratto stilizzato del Chè e vari edifici governativi, ma ora nella nostra memoria è strettamente collegata al recente incontro tra Castro e Giovanni Paulo II); le grandi strade moderne che potrebbero sopportare un traffico intenso e stridono con la scarsità di mezzi circolanti a causa della crisi; gli hotel dei miliardari americani, della mafia, di Hemingway, prima lasciati andare in declino e ora in ristrutturazione grazie ai recenti accordi tra Castro e i nuovi investitori europei. Ma è soprattutto l’Habana Veja che mantiene abbastanza intatto il fascino di un passato molto più lontano, quello dei colonizzatori spagnoli: già con una breve sosta alla fortezza del Morro abbiamo avuto un primo impatto con l’epoca delle escursioni piratesche e dei cannoni spagnoli, ma la visita al Palazzo del Primo Governatore ci cala maggiormente nell’atmosfera di un’epoca che sopravvisse quasi immutata fino ai tempi di Batista. Passeggiando per le sale eleganti e ben tenute della magione (per molti aspetti simili al Museo Romantico di Trinidad) ammiriamo mobili, vasellame, dipinti, passando poi per le sale con i cimeli della guerra cubano-americana. Appena usciamo ci dirigiamo verso la Cattedrale, in stile barocco spagnolo, e appena giunti nella graziosa piazza della Chiesa ci affrettiamo a fotografare un gruppetto di ragazze cubane che indossano i variopinti costumi creoli per la gioia dei turisti e per ramazzare qualche dollaro offrendo baci e sorrisi- ricordo. (A questo proposito non abbiamo potuto fare a meno di notare una delle ragazze italiane che subito dopo la foto si affrettava a togliere il rossetto dalla guancia del suo boy con aria abbastanza gelosa!) Intanto è giunta anche l’ora di pranzo e ci accomodiamo al nostro tavolo alla Bodeguita del Medio, che si trova a due passi. È proprio come lo avevamo immaginato dalla descrizione, solo un po’ più caotico. Mangiamo bene, pur non avendo potuto scegliere alla carta, ma dopo aver letto dappertutto, anche sulle tovagliette e sulle magliette in vendita, del famoso Mohito che beveva Hemingway qui, e che così speciale non lo trovava da nessuna parte… potevano offrirlo anche a noi! Invece ripartiamo perfettamente sobri, con la speranza che ci tocchi qualcosa da bere al Floridita, l’altro locale storico che lo scrittore un po’ sbevazzone onorò spesso della sua presenza. Poiché noi italiani siamo un po’ i forzati dei souvenirs (e le guide ormai lo sanno) ci concedono quasi un’ora per lo shopping al mercatino, sempre nel centro storico della città: ora l’artigianato cubano non è proprio uno dei migliori dell’America Latina, basti pensare che la guida che abbiamo consultato diligentemente a questo proposito consigliava addirittura di limitare gli acquisti ai sigari, al rum o al limite alle ottime marmellate tropicali, ma a parte il fatto che le bancherelle hanno sempre un che di pittoresco, qualcosa di carino da portare a casa riusciamo a trovarlo! Arriviamo poi in un’altra zona significativa dell’Habana: la piazza dove si trovano il maestoso palazzo in cui ha vissuto Batista e il Memorial Granma , dove viene custodita la barca con la quale l’esule Fidel Castro rientrò clandestinamente a Cuba per dare inizio alla rivoluzione (Come dire il diavolo e l’acqua santa!). Nel giardino del Memorial Granma trova spazio anche un missile di Crusciov: è uno dei superstiti di quelli prima installati dai Russi e poi rimossi in seguito agli accordi con gli USA. Il nostro cicerone ci spiega che per i Cubani questo comportamento dei sovietici, che non pretesero come contropartita che gli Stati Uniti ritirassero l’embargo verso Cuba, fu una negligenza grave e da allora ci fu un raffreddamento nei rapporti tra i due Paesi. L’ultima sosta è nella zona un tempo ricca e mondana del Campidoglio, dove sorgono alcuni degli hotels più eleganti ed antichi, bar, teatri. Per un attimo sembra di essere a Washington, infatti lo stile del Campidoglio cubano, voluto da Machado, ricalca fedelmente il suo modello nord-americano. All’interno si trova una statua gigantesca di bronzo, “La Republica” e altre opere di scultori italiani, ma abbiamo solo il tempo di dare un’occhiata veloce. È ormai l’ora di avviarci all’aeroporto, così lasciamo il centro e imbocchiamo il grande viale del lungomare, il famoso Malecòn, dove dominano i toni pastello delle case, queste fortunatamente in restauro, e il blu cupo del mare. Dopo aver fatto una piccola scorta di rum al minuscolo ma fornito duty free, partiamo e riatterriamo a Cayo Coco in tempo per la cena, ma soprattutto prima del coprifuoco! Facciamo il bilancio della nostra escursione con quella in due giorni che potevamo scegliere in alternativa: abbiamo perso la serata al Tropicana, la sosta al famoso Floridita, forse anche una visita alla Finca Vigia, la casa- museo di Hemingway, ma tutto considerato siamo ugualmente soddisfatti. Riprendiamo sereni le nostre giornate al Club dove il tempo scorre velocemente grazie anche al numeroso staff di animatori, per la stragrande maggioranza cubani, che si dimostrano veramente degli stakanovisti dell’intrattenimento e, soprattutto, di una versatilita’ stupefacente: e’ un continuo susseguirsi di tornei che spaziano dal tiro con l’arco al tradizionale calcetto passando attraverso la canoa, la pallavolo e, perché no, lo scopone scientifico, (vincendo il quale abbiamo guadagnato due bei “medaglioni”) mentre alla sera al teatro li ritroviamo tutti nelle vesti di consumati attori, cantanti e ballerini in spettacoli sempre molto ben articolati e curati soprattutto nella scenografia. Tutto ciò non significa che per gli amanti del puro relax sia vita grama, dato che una ampia zona della spiaggia, definita con scherzoso disprezzo “pensione Mariuccia”, e’ off limits per lo scatenato esercito del divertimento: qui il massimo dello sforzo consiste nello svoltare la pagina del libro o girare il tappo della crema abbronzante. Spiaggia bianca e fine come borotalco e palme protese verso un mare caldo e limpido addolciscono il nostro animo e quasi ci fanno scordare che il giorno della partenza è alle porte.


Vai alla Fonte dell’Articolo

Lascia un commento